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A priori.

Locuzione latina medioevale: da ciò che è prima. • Filos. - Locuzione assunta nel linguaggio filosofico in opposizione al termine a posteriori, usata per indicare ciò che è logicamente anteriore all'esperienza e che la ragione trae da sé, indipendentemente dall'esperienza. Il problema logico di "ciò che è prima" fu posto da Aristotele unitamente al problema della sostanza dell'essere. Le due espressioni furono assunte dai commentatori medioevali di Aristotele con riferimento ai ragionamenti che vanno dalle cause all'effetto (a p.) e dall'effetto alle cause (a posteriori). Tipiche della Scolastica medioevale sono le espressioni ex prioribus ed ex posterioribus, riferite soprattutto alla possibilità di dimostrare a p. l'esistenza di Dio. Tale possibilità è negata da Tommaso d'Aquino, secondo il quale l'esistenza di Dio è dimostrabile solo partendo dagli effetti sensibili, ossia avvalendosi di prove a posteriori. Nella filosofia moderna, a partire da Leibniz, l'espressione ha acquistato soprattutto significato gnoseologico ed è usata per indicare la conoscenza che non si fonda sull'esperienza, ma ne costituisce il presupposto, in contrapposizione alla conoscenza a posteriori dovuta all'esperienza. Il problema dell'analisi fatta con lo scopo di trovare, attraverso la conoscenza, elementi a p. per mezzo dei quali giustificare la scienza, venne impostato soprattutto da Kant. Posto che una conoscenza scientifica presenti i caratteri della necessità ("non può non essere") e dell'universalità, essendo valida per ogni soggetto in ogni tempo e luogo, Kant osserva che tale validità non può trovarsi nella sola adesione a un'esperienza esterna che, come aveva dimostrato Hume, sarebbe necessariamente contingente, bensì deve trovarsi in un principio costitutivo dell'esperienza stessa anteriore al costituirsi dell'esperienza. Kant giunge così ad ammettere l'esistenza di giudizi sintetici a p. che soli possono avere validità universale e necessaria, ponendo poi il problema di come siano possibili i giudizi sintetici a p. della matematica e giungendo all'enunciazione della teoria della sensibilità, connessa all'estetica trascendentale. La sensibilità non è pura ricettività, ma una costruzione mediante forme a p. Nessuna sensazione può essere pensata se non realizzantesi nello spazio e nel tempo e ciò significa che spazio e tempo sono anteriori alla sensazione stessa, sono cioè forme a p., aventi quindi validità universale e necessaria, mediante le quali il soggetto ordina il fluire caotico delle sensazioni. Pertanto, l'aritmetica e la geometria, che sono rispettivamente le leggi del tempo e dello spazio, avranno validità universale e necessaria. Queste forme a p. che consentono la sintesi conoscitiva sperimentale, ma non provengono dell'esperienza, sono definite da Kant trascendentali. Rifacendosi alla distinzione kantiana fra fenomeno e noumeno, A. Schopenhauer afferma che lo spazio e il tempo costituiscono le forme a p. della rappresentazione, per cui, in definitiva, il mondo, come il fenomeno, altro non è per noi che una serie di rappresentazioni, mentre il soggetto, e l'uomo in quanto tale, non può diventare oggetto e quindi essere conosciuto fenomenicamente. Come corpo, invece, l'uomo rientra nel mondo delle rappresentazioni, sottostando alla legge della causalità. Il più rilevante tentativo di sistemazione del pensiero kantiano, in particolare della difficoltà di risolvere tutta la conoscenza nell'attività a p. della coscienza, pur ammettendo un contenuto a posteriori, si deve al neocriticista W. Wundt. Egli tentò di operare tale sistemazione non ponendosi come Kant da un punto di vista etico, ma in sede puramente psiconaturalistica. Un netto rifiuto di ogni apriorismo è stato posto dalle dottrine positivistiche, secondo cui solo la conoscenza dei fatti è feconda e la certezza è data unicamente dall'osservazione, propria delle scienze sperimentali.